Argentina: “Il cosiddetto neoliberismo e i suoi falsi critici”

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Il 10 Dicembre, il cosiddetto “anarco-capitalista” Javier Milei si è insediato alla presidenza dell’Argentina, dopo aver promesso, durante la campagna elettorale, l’eliminazione della Banca Centrale Argentina e il rovesciamento dell’establishment politico. Cosa succede quando un “anarco-capitalista” prende il potere?

Come abbiamo sempre sottolineato, non esiste l’ “anarco-capitalismo”. L’idea che le gerarchie create dal capitalismo possano essere compatibili con l’aspirazione anarchica nell’abolizione delle disparità dei poteri imposti, è altrettanto contraddittoria quanto l’idea di unu anarchicu a capo di un governo. Ci sono capitalisti e ci sono presidenti – e praticamente tutti i presidenti sono [capitalisti]; ma nessunu anarchicu si abbasserebbe ad essere un presidente o un sostenitoru del capitalismo.

Dopo il voto della Brexit e l’elezione di Donald Trump, i politici dell’estrema destra hanno ottenuto una serie di vittorie elettorali presentandosi, in modo falso, come dei ribelli contro l’élite al potere,1 sfruttando il malcontento che ribolle e il modo con cui i liberali e gli esponenti della sinistra si sono associati alle istituzioni dominanti. Sarebbe impossibile per i politici dell’estrema destra dipingersi come ribelli – se non fosse che la destra e la sinistra hanno collaborato nel schiacciare lu anarchicu e altri movimenti sociali che, altrimenti, avrebbero fornito un esempio di come sia la vera ribellione. La vittoria elettorale di un “anarco-capitalista” è l’ultimo capitolo di questa storia. Non sorprende che, nella pratica, l’ “anarco-capitalismo” non porti all’anarchismo ma, semmai, al capitalismo. Invece di abolire la Banca Centrale, il primo atto di Milei è stato quello di nominare l’ex presidente della suddetta come ministro dell’Economia. Nei primi giorni di mandato, Milei ha annunciato alcuni tagli all’interno del governo: fermerà i nuovi progetti infrastrutturali, licenzierà i dipendenti statali, taglierà i sussidi per l’energia e i trasporti alle persone consumatrici, abolirà metà dei ministeri federali e svaluterà il peso argentino – intensificando l’inflazione e producendo quasi certamente una recessione. Con il nuovo tasso di cambio del governo, il reddito medio annuale argentino sarà di soli 6300 dollari.

Ma non si tratta di sbarazzarsi del governo – semplicemente si eliminano tutti gli aspetti che potrebbero facilitare gli impatti del capitalismo sulla gente comune. Il governo di Milei non ridurrà l’apparato repressivo dello Stato. La sua ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, un altro membro di lunga data dell’élite politica, si è impegnata nel mobilitare la polizia per reprimere lu manifestanti. Bullrich ha annunciato la sua intenzione di addebitare allu organizzatoru e allu singolu manifestanti i costi della polizia durante le manifestazioni. Poiché saranno le autorità a decidere i costi della polizia necessari per ogni manifestazione, questa politica consentirà alle forze dell’ordine di controllare la gente comune nello stesso modo in cui gli “anarco-capitalisti” accusano i socialisti di fare (dove quest’ultimi vengono tacciati dai primi di essere autoritari, controllori e nemici dei singoli, ndt). [La ministra, inoltre,] intende introdurre nuove forme di repressione, armando le autorità per l’immigrazione e i servizi di protezione dell’infanzia contro coloro che partecipano alle proteste.

Per capire meglio come lu veru anarchicu vedono la situazione in Argentina, abbiamo intervistato lu compagnu di “La Oveja Negra” e “Cuadernos de Negación”, due progetti associati alla Biblioteca e all’Archivio Alberto Ghiraldo della città di Rosario. [Questu compagnu ci] raccontano i decenni di lotta sociale e la ristrutturazione economica che ha creato le condizioni per l’ascesa al potere di Javier Milei. Per saperne di più, potete leggere “Ritorno al futuro”, il primo articolo che abbiamo pubblicato sulla vittoria di Milei, o questa intervista con il progetto editoriale anarchico “Expandiendo la Revuelta”.

“Né dittatura né democrazia. Viva l’anarchia!”. Uno striscione durante una manifestazione nel 2008.


In che modo Milei è una continuazione e una diversità della vecchia estrema destra? Perché ha vinto le elezioni?

Abbiamo recentemente pubblicato un libro intitolato “Contro il liberalismo e i suoi falsi critici”. Abbiamo iniziato a lavorarci poco più di un anno fa e quando l’abbiamo finito, Milei stava già per vincere le elezioni presidenziali. È stato tutto molto veloce: è diventato presidente dopo soli due anni di campagna elettorale e di retorica riguardo il “bruciare la banca centrale” o “porre fine all’ideologia di genere”.

Il nostro intento – nel libro – era quello di affrontare l’emergere del fenomeno liberal-libertario in Argentina e di altre espressioni della “destra alternativa” (alt-right); alla fine lo abbiamo pubblicato nel bel mezzo della campagna elettorale. Abbiamo viaggiato e presentato il libro in alcune città argentine e a Santiago del Cile. Si tratta di un tema attuale e prioritario per noi e per le persone che abbiamo incontrato; abbiamo avuto molte discussioni approfondite. Evidentemente qualcosa sta cambiando non solo nel vecchio “movimento operaio” e in altre forme di lotta ma anche nel modo in cui si esprime il malcontento sociale – oltre all’esaurimento di un certo progressismo come garante della riproduzione capitalistica in questa regione.

Non vediamo Milei come un continuatore dell’ultradestra argentina, ma come un ultracapitalista. Abbiamo iniziato a prestare attenzione a lui anni fa, principalmente per questo motivo, per la sua difesa del capitalismo come economista liberale, e poi per le sue critiche al progressismo reazionario – che lo rendono molto simile ad altre persone dell’ “alt-right” mondiale. In generale riteniamo che non sia particolarmente utile confrontare il [presente con il] passato quando si cerca di capire qualcosa di nuovo.

A differenza dei protezionisti come Donald Trump, Javier Milei è un sostenitore del commercio internazionale.

Anche se tra le fila di questo nuovo fenomeno ci sono degli esponenti della vecchia destra, non è tale tratto ideologico a costituirlo. Un elemento importante, a questo proposito, è la vicepresidente Victoria Villaruel, un’avvocata che non solo ha difeso i militari dell’ultima dittatura, ma proviene da una famiglia di militari e ha organizzato delle visite nelle carceri [in cui erano rinchiusi] i partecipanti al genocidio – assassini del calibro di [Jorge Rafael] Videla, ufficiale militare argentino. [Ella] nega la scomparsa di 30.000 “desaparecidxs” – una cifra simbolicamente significativa.

Non è che queste persone non esistevano prima del “fenomeno Milei”; ma è la prima volta che persone [del genere] siano arrivate al governo attraverso dei canali democratici. Mentre scriviamo questo, non hanno ancora assunto le loro funzioni governative e già si nota una distanza tra loro. Invece di assegnare i ministeri della Sicurezza e della Difesa a questo settore filo-militare del suo governo, come era stato concordato tra l’altro, Milei ha nominato per questi ministeri i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza di “Juntos por el Cambio”. Si tratta, rispettivamente, di Patricia Bullrich e Luis Petri. La prima ricopriva già tale incarico nel 2017, durante la presidenza di Mauricio Macri, quando la Gendarmeria nazionale assassinò il compagno anarchico Santiago Maldonado.

Un murale in onore di Santiago Maldonado che scomparì quando la Gendarmeria Nazionale Argentina attaccò una manifestazione contro il Gruppo Benetton. Il suo corpo, annegato, fu trovato settimane dopo.

Da parte sua, Milei è un economista di professione e deputato nazionale della Città di Buenos Aires dal 2021. Ha lavorato come consulente finanziario; il che significa che la sua carriera è [iniziata] nel mondo degli affari – non proviene da un settore militare o necessariamente di destra. A partire dal 2015 si è fatto conoscere neitalk show politici, sfoggiando uno stile provocatorio ed esprimendo un’ideologia liberale con toni conservatori (paleo-libertarismo). In campo economico si identifica con la “scuola austriaca”. Gli sono state offerte sempre più apparizioni nei media perché ricevevano ascolti elevati; sicché gli youtubers e influencer legati al liberismo e alle idee apertamente anti-femministe e reazionarie hanno iniziato a replicare la sua retorica. [Milei] ha iniziato a guadagnare slancio come figura politica dal 2018-19. Rafforzato dalle sue continue apparizioni sui media, la sua clamorosa retorica al Congreso Nacional contro le politiche ufficiali e la “casta politica” (una caratterizzazione che lo stesso Milei ha reso popolare in Argentina, riferendosi ai funzionari e ai politici di carriera) è diventato un punto di riferimento politico e potenziale candidato alle presidenziali, indirizzando verso il parlamento gran parte dell’indignazione [popolare] – in particolare contro i politici e la dolorosa situazione sociale che stiamo attraversando, fatta di povertà, fame e miseria.

Come è riuscito a vincere le elezioni? Incanalando questo malessere sociale, dato che lui e il suo avversario, Sergio Massa, hanno ricevuto la maggior parte dei voti come conseguenza del disprezzo degli elettori per l’altro candidato – una manifestazione di rifiuto piuttosto che di speranza in questo o quell’altro governo. La campagna [di Milei] è stata condotta, principalmente, attraverso i “social network” e le apparizioni sui media – e non attraverso i canali tradizionali della propaganda politica. Nelle strade si sono visti pochi manifesti di Milei rispetto ai numerosi video circolanti su internet che lo ritraggono. In Argentina sembra esistere un patto democratico implicito secondo cui “si esce [da questa situazione] votando”; [di conseguenza] la rabbia si manifesta alle urne. Il fenomeno Milei deriva da un disprezzo per la politica tradizionale – che non è riconosciuta come politica -, e da un alto grado di conformismo e fiducia nella rappresentanza e nel codice capitalista dell’ “ognuno per sé”. Tutta la politica “progressista” in questo Paese si è concentrata, come alternativa, nel cancellare la possibilità di rottura. Questa sinistra (in mancanza di una parola migliore) è diventata sempre più nazionalista, statalista e dirigista; non è più nemmeno riformista, se intendiamo il riformismo come una presunta strategia rivoluzionaria.

Alla fine di quest’anno (2023, ndt) in Argentina ci troviamo con un brutale peggioramento delle condizioni di vita, un’inflazione prevista al 200% all’anno e metà della popolazione che vive in povertà. C’è chi si chiede come mai sia la destra ad incanalare questo malessere. Anche noi ce lo chiediamo; ma non pensiamo che la ribellione debba “tornare a sinistra” – come alcuni stanno dicendo. L’ordine democratico funziona attribuendo la responsabilità della situazione sociale ai diversi governi che si alternano al potere e a secondo del contesto. Questo rende difficile formulare una visione complessiva e una critica che vada oltre gli errori di questo o quel presidente. Nello stesso momento in cui il progressismo è spaventato dalle aberrazioni pronunciate dai suoi avversari, le esagera con l’intento di differenziarsi e di mantenere il potere. Dietro i contrasti discorsivi, nella pratica non vi è una differenziazione così grande rispetto a coloro che esprimono un rifiuto del progressismo e sono arrivati al potere. Almeno, finora, questo è ciò che suggeriscono gli eventi in diversi Paesi, dove c’è stata solo un’alternanza al potere, senza un cambiamento profondo nelle politiche statali o una riforma strutturale dello Stato e del suo legame con il mercato. Lo si può osservare, ad esempio, in Bolivia, negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile, rispettivamente con Morales-Áñez-Arce, Obama-Trump-Biden, Fernández de Kirchner-Macri-Fernández-Milei e Da Silva-Rousseff-Temer-Bolsonaro-Da Silva. Il progressismo latinoamericano, pur puntando sulla minaccia destroide, ha portato solo moderazione – mentre le nuove o le vecchie destre, nonostante la loro aggressività, sono diventate più “progressiste” una volta salite al potere. Da parte nostra, vogliamo contribuire ad una prospettiva anti-capitalista, affrontando i problemi di questa regione come la povertà, la precarietà lavorativa, l’inflazione, lo sfruttamento delle risorse naturali, la repressione e questa alternanza democratica che garantisce la miseria e un funzionamento economico debole. Nonostante il trionfo elettorale del partito di Milei, “La Libertad Avanza”, alle elezioni presidenziali, non cerchiamo di promuovere alcun tipo di fronte comune elettorale contro di loro, né di essere un sostegno di piazza a tale frontismo politico.

“Nessun nome è dimenticato, nessun volto è dimenticato. Un murale ad una manifestazione che ricorda l’anniversario della dittatura militare, 24 Marzo 2021.

In che modo la vittoria di Milei rappresenta una continuità e discontinuità tra dittatura e democrazia in Argentina?

È difficile mostrare una panoramica della situazione argentina degli ultimi 50 anni. Ma possiamo provarci. Ci rifaremo al libro che abbiamo citato e ad un’intervista che abbiamo fatto qualche anno fa.

La fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 era stata un’epoca eccezionale per le lotte proletarie nella regione e, [più in generale,] nel mondo. Dagli anni ’30, la politica argentina era stata caratterizzata dall’alternanza tra governi dittatoriali e parlamentari. In questo caso, ci riferiamo alla dittatura della sedicente “rivoluzione argentina” (1966-1973), guidata dal generale Juan Carlos Onganía. Certo, parlare di dittatura militare è incompleto, e qualsiasi latinoamericano lo sa, dato che tutte queste dittature erano di tipo civile-militare.2 Ma crediamo di poterci intendere. Le principali giornate di azione di quel periodo furono gli “-azos”: il “Tucumanazo” del Novembre 1970, il “Rosariazos” di Maggio e Settembre 1969 e, soprattutto, il “Cordobazo” del Maggio 1969. Si trattava di proteste che degenerarono in una situazione di insurrezione urbana, con barricate, controllo degli edifici e scontri nelle strade. Per non parlare dell’organizzazione e del coordinamento che tutte queste [situazioni] richiedevano.

Una barricata durante il Cordobazo, Maggio 1969.

Come accadde in molte altre regioni, quel livello di organizzazione e capacità di lotta della classe cedette gradualmente il passo alle sue principali debolezze: la politica e la lotta armata che avrebbero caratterizzato la regione a partire dal 1973 – anno del ritorno della democrazia e dell’[ex presidente Juan] Perón. In questo contesto, la lotta armata si intensificò, così come la risposta dello Stato, fino a raggiungere un punto di rottura il 24 Marzo 1976, quando le forze armate assunsero nuovamente il controllo dello Stato – e in quello che divenne noto come “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Riteniamo che sia risaputo come questa dittatura militare sia stata caratterizzata non solo dalle brutali torture e omicidi, ma anche dalla sparizione forzata di migliaia di persone, per lo più militanti, e, in molti casi, dal rapimento dei loro figli. Allo stesso tempo, molte persone sono dovute andare in esilio. Dopo la fine della dittatura nel 1983, il “ritorno alla democrazia” del governo di Raúl Alfonsín continuò una serie di politiche economiche e sociali che resero più difficili le condizioni di vita rispetto agli anni precedenti del governo militare. Nel 1989, in un contesto di iperinflazione, la popolazione saccheggiò i supermercati delle principali città del Paese e affrontò la polizia. Gli anni ’90 iniziarono con Carlos Menem alla presidenza; durante il suo primo anno di [presidenza] si verificò un altro ciclo di iperinflazione, che portò ad un nuovo brutale attacco al proletariato. Allo stesso tempo, [Menem] contribuì a convincere gran parte della popolazione sulla necessità dei “sacrifici” e “profondi cambiamenti”. In questo contesto, in Argentina si andò verso una profonda ristrutturazione del capitalismo – che portò a profonde privatizzazioni delle imprese pubbliche. Ciò causò migliaia di licenziamenti e ad un’intensificazione dello sfruttamento, mentre il mercato del lavoro venne modificato, producendo una crescente precarietà e rendendo la forza lavoro sempre più eterogenea in termini di riproduzione e condizioni di vita. Durante gli anni ’90, il livello di conflittualità nei diversi settori della forza lavoro era cresciuto di fronte alla ristrutturazione [capitalistica] e ai licenziamenti. Se nella prima metà di quel decennio le lotte mantenevano la stessa strategia sindacale dei decenni precedenti, nella seconda metà del decennio, invece, la figura della persona “disoccupata” iniziava a prendere forza – complice l’alto livello di disoccupazione. Le persone disoccupate non avevano spazi di lavoro o mezzi di produzione da sequestrare o sabotare; quindi scendevano nelle strade e nelle autostrade per interrompere la circolazione dei beni (compresa la merce ottenuta dalla produzione lavorativa). I primi picchetti erano stati organizzati al di fuori dei partiti e dei sindacati; erano dirompenti e si opponevano fermamente allo Stato. In seguito, i gruppi “piquetero”, come i movimenti sociali nel loro complesso, iniziarono un processo di crescente istituzionalizzazione, incanalando tutta la loro prospettiva [di lotta] nel richiedere [aiuto] allo Stato. Le loro organizzazioni potevano essere paragonate ai sindacati – che negoziano anch’essi con lo Stato, controllano la rabbia popolare e danno un prezzo alla vita, creando una dinamica di leader e sottopostu. Oggi tutto questo è rappresentato da un settore del peronismo guidato da Juan Grabois e chiamato “economia popolare”.

È stato solo nel 2001 che la crisi si è estesa ed è impattata sulle persone disoccupate e lavoratrici. A causa della dura situazione, molte persone lavoratrici, che si consideravano della classe media, erano state costrette a scendere in piazza. Il governo di Fernando de la Rúa, che aveva sostituito [Carlos] Menem al potere, non era riuscito a dare una risposta borghese intelligente alle pressioni delle organizzazioni internazionali, dell’opposizione peronista e di questa nuova e debole alleanza tra persone disoccupate e lavoratrici in lotta e i settori dell’autoproclamata classe media. Per tutto il 2001, il governo aveva attuato una serie di misure di “protezione”, chiedendo prestiti massicci per assicurare la continuità dell’attività bancaria. Ma questo non era bastato: all’inizio di Dicembre 2001 era stata approvata una nuova legge, il famoso “corralito” – che poneva severe restrizioni al prelievo di denaro dalle banche e varie limitazioni riguardante la conversione da pesos in dollari e viceversa. In questo modo molte persone avevano perso i loro risparmi. La parità peso-dollaro era finita; oggi un dollaro equivale a più di mille pesos argentini. Tutte queste condizioni erano esplose a metà Dicembre 2001. Il 19 Dicembre, in risposta al saccheggio generalizzato dei supermercati, il governo decretò finalmente lo stato d’assedio, militarizzando l’intero Paese e vietando alla gente di riunirsi nelle strade. È importante notare che tutte le proteste si svolsero in totale disprezzo verso questo decreto governativo. La polizia era riuscita ad arrestare alcune persone, ma non le migliaia [che si riversavano per strada]. Il 20 Dicembre, il presidente si era dimesso; nonostante la repressione e l’uccisione di 39 persone in tutto il Paese, la popolazione non aveva abbandonato le strade. La risposta era massiccia: si sbattevano pentole e padelle a tutte le ore, si organizzavano assemblee di quartiere nelle principali città del Paese, si attaccavano banche e istituzioni statali e i movimenti delle persone disoccupate vedevano crescere incredibilmente le loro organizzazioni e la loro forza, bloccando strade e vie in tutto il Paese. Fu in questo momento che iniziò a generalizzarsi lo slogan “che se ne vadano tutti” come ripudio totale verso i politici di ogni schieramento.3 Lo slogan “que se vayan todos”, che gli elettori di Milei stanno ora cantando, era stato intonato in tutta la regione in quei giorni, ma in un clima di lotta e solidarietà. Quando i giornalisti o i membri dei partiti di sinistra hanno sfidato i manifestanti, chiedendogli cosa sarebbe successo all’atto che se ne andavano tutti, la risposta è stata clamorosa: “che continuino ad andare via.” Gran parte dell’attuale rabbia sociale ha preso questo strano canale. Nel 2001 la rabbia contro i politici era caratterizzata da una prospettiva diffusa e irrazionale, ma con un rifiuto di fondo del capitalismo e basato sulla solidarietà, sui picchetti e sulle assemblee; buona parte dell’attuale malessere contro la “casta politica” si esprime in termini completamente capitalistici. Nonostante la loro assurdità e impraticabilità, espressioni come “dinamizzare la banca centrale” sono comode per il mantenimento dell’ordine rispetto alla “liberazione” della lotta sociale. Nel 2002, dopo le rivolte, la borghesia aveva cercato di organizzare una risposta, anche se in modo lento e disordinato, destituendo un presidente dopo l’altro fino a quando era subentrato Eduardo Duhalde, un figlio prediletto e popolare del peronismo – sospettato di essere un narcotrafficante e un assassino. Il governo di Nestor Kirchner (2003-2007) si era caratterizzato per essere un capolavoro del populismo peronista e latinoamericano. Grazie ad un contesto estremamente favorevole – dai prezzi internazionali delle materie prime ai salari completamente distrutti -, il governo aveva raggiunto la stabilizzazione economica. D’altra parte, si era assunto il compito di costringere tutte le organizzazioni sociali a schierarsi favorevolmente o contro il suo progetto politico. Le scuole popolari, gli spazi di base nei quartieri e i gruppi di giovani militanti si schierarono a favore del kirchnerismo. [Questi erano] incoraggiati dal suo presunto programma di rinnovamento, dalla promessa di stimoli economici e dall’immagine di un “governo [rispettoso] dei diritti umani” – dopo che questo riprese i processi contro i funzionari della Giunta del 1976 (un’altra grande operazione pubblica mediatica in quanto l’apparato repressivo dello Stato rimase intatto). In Argentina, le persone erano scomparse anche sotto la democrazia – migliaia erano state o assassinate nelle stazioni di polizia o in casi di “gatillo fácil” (polizia dal grilletto facile, ndt) oppure imprigionate e perseguitate per resistenza [a pubblico ufficiale]. Il governo di Cristina Fernandez de Kirchner aveva continuato le politiche del marito. Alcuni erano rimasti sorpresi dal fatto che la sua amministrazione avesse introdotto la legge antiterrorismo4 e, al contempo, avesse legalizzato il matrimonio “egualitario” tra persone dello stesso sesso. Ma non si trattava di misure contraddittorie. Il progressismo è il progresso del capitale – per quanto si sforzi di apparire come il progresso della società contro l’offensiva capitalista.

Schieramento poliziesco a fianco ad un camion con cannone ad acqua durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017).

Torniamo al cosiddetto neoliberismo e alla ristrutturazione capitalistica, riflettendo sulle continuità e discontinuità [dei regimi] dittatoriali e democratici argentini. Le cosiddette politiche neoliberiste, applicate in Argentina e in altri Paesi dell’America Latina, non sono state solo la conseguenza delle ultime dittature civili-militari e della feroce repressione da esse attuate. Alcune delle caratteristiche di quello che viene per lo più identificato come neoliberismo – l’intensificazione della precarietà e la “flessibilizzazione” lavorativa, la privatizzazione di varie industrie e servizi, la crescente finanziarizzazione economica, la riduzione della spesa pubblica – sono state una conseguenza della precedente fase del capitalismo che oggi molti desiderano – rappresentata dal peronismo in Argentina e dal cosiddetto “stato sociale” in altre parti del mondo. Vogliamo qui sottolineare le continuità non militari, ma democratiche e sempre capitalistiche, esposte nel libro che abbiamo appena pubblicato. La globalizzazione e la delocalizzazione dei centri di produzione sono stati tra gli aspetti più significativi di queste trasformazioni mondiali.

Il processo di ristrutturazione globale ha assunto forme diverse nei vari Paesi e ha impiegato diversi decenni per diffondersi. Come in Argentina, in molti altri Paesi la popolazione disoccupata è aumentata considerevolmente a causa della chiusura di varie industrie e settori le cui tecnologie stavano diventando obsolete in termini di produttività; la precarietà è aumentata [all’interno di quella grande porzione] di popolazione orientata, principalmente, nel settore dei servizi; mentre i salari di un piccolo numero di persone lavoratrici impiegate in settori tecnologicamente più avanzati e redditizi sono cresciuti o rimasti stabili.
I Paesi dove le industrie sono state delocalizzate hanno vissuto un’esperienza diversa, fornendo enormi quantità di manodopera ad un prezzo migliore per la borghesia globale, come è accaduto in diversi Stati asiatici.

La massa di merci a livello globale non ha smesso di crescere, anche se non possiamo dire lo stesso per i salari o i livelli di occupazione nel loro complesso – specie se guardiamo i Paesi separatamente. In questo modo, il ruolo dello Stato si è spostato; l’assistenza sociale alle persone disoccupate o a quelle precarie, che non hanno accesso a un salario sufficiente, si è diffusa in gran parte del mondo. Oggi, in Argentina, non c’è una disoccupazione massiccia, ma per migliaia e migliaia di persone un lavoro non è sufficiente per sopravvivere. È sorprendente vedere l’accettazione del discorso economico liberale in Argentina; fino a meno di un decennio fa, era una parola negativa per la maggioranza della popolazione. La crescita della nuova destra liberale deve essere compresa all’interno di un contesto dove i progressisti non sono riusciti ad affrontare i problemi sociali. La destra liberale evidenzia questi fallimenti nei suoi discorsi, in linea con i propri incantesimi: inclusione sociale, ridistribuzione della ricchezza, espansione dei diritti. D’altra parte, la povertà, il lavoro precario, la disuguaglianza e la violenza – violenza repressiva, violenza criminale come quella legata al traffico di droga e violenza di genere – sono in aumento. Le misure comunemente associate al neoliberismo sono state imposte in tutto il mondo durante la ristrutturazione capitalistica iniziata negli anni Settanta. In Argentina, la ristrutturazione globale ha assunto una forma specifica, che si è consolidata negli anni ’90, con una riforma dello Stato e del modo di accumulazione locale. Questa situazione ha avuto luogo all’interno di un quadro di ferrea disciplina di mercato sulle persone lavoratrici, esercitata principalmente dalla “convertibilità” [una parità fissa tra il peso argentino e il dollaro statunitense], dalla liberalizzazione del commercio e dalle privatizzazioni. Questa disciplina è stata imposta, come abbiamo detto, dopo due periodi di iperinflazione (1989 e 1991) che hanno distrutto i salari. Il modo di accumulazione capitalista in Argentina è basato sulla fornitura di prodotti a basso valore aggiunto (compresi i prodotti primari come la soia e anche i loro derivati industriali, come olio, farina e pellet) all’interno del mercato mondiale.

Sebbene l’Argentina sia storicamente un Paese esportatore di prodotti agricoli, negli anni ’90 questi settori si sono espansi e modernizzati in modo significativo, aumentando la loro produttività. Questo processo si è consolidato solo nel decennio successivo, dopo la crisi del 2001 e la fine della “convertibilità”. La ripresa economica e politica durante il kirchnerismo è derivata dalla ristrutturazione della produzione, dall’allentamento della disciplina di mercato che la “convertibilità” comportava, dalle condizioni favorevoli del mercato mondiale e dal fatto che i salari reali erano miseri all’inizio del processo; sono cresciuti progressivamente negli anni successivi, pur non riuscendo a raggiungere il livello del ciclo economico precedente – e scendendo successivamente di nuovo qualche anno dopo, fino ad arrivare alla situazione attuale.

Il periodo di Kirchner si è differenziato dal precedente soprattutto per la disciplina di mercato, che ha permesso al governo di adattarsi alle richieste sociali e alle oscillazioni dei mercati internazionali, intervenendo sul tasso di cambio e aumentando il prelievo fiscale e la spesa pubblica – attraverso le trattenute e la nazionalizzazione del segmento privato del sistema pensionistico. Una delle parti più consistenti di questa spesa pubblica era costituita dai sussidi per i carburanti, l’energia e i trasporti, di cui hanno beneficiato sia gli utenti privati che le imprese. Milei ha descritto i proprietari di queste aziende, che dipendono dalle politiche protezionistiche statali, come “imprenditori prebendari”, “empresaurios” o “empresucios”. Da una prospettiva rivoluzionaria, critichiamo qualsiasi visione o proposta industriale legata allo sviluppo delle forze produttive. Ma dal punto di vista dell’economia nazionale e della gestione del capitalismo locale, anche alle sue condizioni, è chiaro che sta funzionando male, considerando le ripetute recessioni, gli aggiustamenti e le crisi. Il kirchnerismo è stato promosso come una presunta re-industrializzazione del Paese, ma in realtà la matrice produttiva non ha subito grandi cambiamenti e la precarietà è persistita, crescendo notevolmente nell’ultimo decennio. La situazione è diventata insostenibile e i gestori del capitale parlano solo di sacrifici, più o meno graduali, ma comunque di sacrifici. Questo anno elettorale ha imposto un’interruzione del conflitto sociale e della riflessione critica; ma questi cambiamenti richiedono un ripensamento delle questioni di fondo. È tempo di insistere sulla necessità di una rottura.

Concretamente, al di là della questione di chi ha vinto le elezioni, ci troviamo di fronte ad un approfondimento della riduzione della spesa pubblica (in modo da ridurre il deficit fiscale), a brusche svalutazioni del peso (come già avvenuto), ai cambiamenti nella politica monetaria, alla riforma del lavoro e della previdenza sociale e ad altre politiche con un impatto immediato sul proletariato. Gli ultimi periodi di cambiamento nelle sale del governo sono stati anche momenti di aggiustamento economico.

Dovremo affrontarlo, non importa da chi provenga – ma la domanda che bisogna porsi è come siamo arrivati a questo punto. Non dobbiamo perdere di vista gli aggiustamenti precedenti e quelli in corso, né applicare una memoria selettiva che perpetui la logica democratica del “male minore”.

Polizia motociclista armata durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017).

Come vedi la relazione tra Milei e Jair Bolsonaro e Donald Trump?

Se c’è qualcosa che accomuna questi tre spregevoli personaggi è un populismo che non si basa sui tradizionali pilastri della sinistra. A differenza di Trump, Milei non è un protezionista: al contrario, propone di “rendere l’Argentina di nuovo grande”, aprendo il Paese alle importazioni, liberalizzando il mercato e il tasso di cambio.

L’ultraliberismo di Milei è eccezionale rispetto alle nuove destre di tutto il mondo. Se c’è una cosa che li accomuna, è il loro anti-progressismo reazionario. Nel caso argentino, vi è una combinazione tra le premesse economicamente liberali e le critiche reazionarie verso le discussioni attuali, come le questioni dell’accesso all’aborto o dell’educazione sessuale. Per quanto riguarda il curioso amalgama locale tra liberale / reazionario, è difficile trovare una coerenza che vada oltre l’opportunismo elettorale – ma che si alimenta nel contrastare certe politiche attuate dopo gli sconvolgimenti sociali del 2001. Dopo un breve periodo di stabilizzazione e crescita, queste politiche si sono rivelate inutili – o peggio – di fronte ai crescenti problemi sociali. Tutto ciò che appare in qualche modo oppositivo viene utilizzato come rinforzo quantitativo: il liberalismo economico, il costituzionalismo, le teorie del complotto, l’anticomunismo, l’anticorruzione, l’anti-picchettaggio, l’antifemminismo.

Ma al di là dell’ideologia che Milei professa, è importante riflettere sul perché quest’ultimo sia apparso in questo momento e perché sia diventato così popolare. Cosa rappresenta socialmente la sua irruzione? Coloro che votano per Milei non sembrano preoccuparsi di ciò che è accaduto cinquant’anni fa, né sembrano essere veri seguaci degli economisti della scuola austriaca. Quello che questi comunicano per strada o al lavoro è che sono stanchi di tutto. Un’altra questione che questi settori di destra strumentalizzano molto bene è la richiesta di “sicurezza” in un contesto latinoamericano, dove rapine e omicidi sono abbastanza comuni. Ciò non significa necessariamente richiedere il pugno di ferro; ma serve, [semplicemente,] per esprime il malessere di una “guerra dei poveri contro i poveri”. Questo desiderio può essere tradotto in una richiesta di pugno di ferro ma può anche essere interpretato come un istinto di autoconservazione di fronte ad una situazione grave e in assenza di altre proposte. Se guardiamo i modi in cui queste persone politiche si intersecano, lo facciamo tenendo conto di quello che sono: nient’altro che nuove aspiranti figure pronte a gestire e ad amministrare lo Stato, ognuno con le sue particolarità.5

È importante sottolinearlo quando si forma un fronte “contro la destra”, “contro il fascismo”. Per coloro che sono in campagna elettorale permanente, questa “minaccia fascista” è solo un altro argomento di conversazione. Questo ci sembra importante per non andare dietro a quei movimenti che aspirano solo a governare e ad amministrare il Capitale.

Può sembrare strano a tutti i politici terrapiattisti leggere i concetti che sono arrivati a negare: la società di classe, lo sfruttamento, le condizioni materiali dell’esistenza, la rivoluzione. In questo senso, alcuni indignati che indicano [determinate politiche] come “destra economicamente liberale”, troveranno dei punti in comune con [quest’ultima] nonostante il loro rifiuto su certe istanze. Ecco perché si parla di “falsi critici” del liberalismo economico.

Una fotografia di antifascisti all’esterno del circolo sociale e sportivo “La Cultura del Barrio” scattata intorno al 2018.

Quali sono le probabili conseguenze negative della vittoria elettorale di Milei? Cosa cambia esattamente?

Di fronte alla situazione sociale di risanamento permanente che noi stiamo vivendo (inflazione, svalutazione eccessive, prezzi degli affitti incontrollabili, salari reali in picchiata, alta disoccupazione, lavori sempre più precari e povertà crescente), le nuove politiche economiche vengono presentate come responsabili e allo stesso tempo potenzialmente salvifiche. [Il partito politico di Milei] “La Libertad Avanza” ha puntato in alto, parlando di un vero e proprio risanamento e di una brusca riduzione della spesa pubblica. Ciò che sta cambiando, quindi, è il modo in cui la borghesia realizzerà il risanamento economico, che stava già realizzando in ogni caso – indipendentemente dal governo in carica.

“Non ci sono soldi” è l’avvertimento e la minaccia del discorso di Milei prima del suo insediamento. La nostra preoccupazione principale è a livello economico poiché Milei entra in carica in un contesto critico e con un discorso a favore del risanamento – il quale sembra avere sufficiente legittimità. Allo stesso tempo, nessun risanamento può essere fatto senza repressione e tutte le forze politiche che compongono il nuovo governo sono feroci sostenitori del pugno di ferro e del rispetto della legge. Le forme di repressione, associate all’istituzionalizzazione della lotta, possono funzionare in una certa misura; sembra farsi strada un utilizzo monopolistico della violenza da parte dello Stato: manganello, proiettile e prigione.

Per quanto riguarda la “guerra culturale”, si assiste ad una crescita o ad un rafforzamento dei settori reazionari e conservatori; alcune politiche progressiste sulle questioni di genere, sui diritti umani, sull’ambiente o sulle popolazioni indigene, ad esempio, saranno ridotte. Nonostante i discorsi bellicosi dei settori della neo-destra, notiamo, in primo luogo, che essi sono molto più moderati quando salgono al potere, specialmente quando trattano tematiche politiche specifiche. Ci ha colpito, ad esempio, l’alto numero di deportazioni annuali durante l’amministrazione Obama rispetto a quella Trump. In secondo luogo, queste battute d’arresto ci invitano a ripensare sull’approccio legalistico e sul contenuto delle politiche progressiste riguardo questi temi. Non solo non risolvono ciò che si prefiggono di affrontare, ma limitano le rotture iniziali che queste lotte hanno proposto. Il “Cittadinismo” è penetrato in profondità nei movimenti sociali; invece di abbracciare lo statalismo, [adesso lo dobbiamo] mettere in discussione.

Molti temono che il nuovo governo possa favorire e dare libero sfogo ai gruppi neonazisti e a quelli evangelici e cattolici che hanno partecipato alle manifestazioni contro la legalizzazione dell’aborto. In Argentina non prevediamo che questo rappresenti un rischio considerevole per i settori in lotta, tanto meno prefiguriamo un potenziale scontro civile. Ci aspettiamo, invece, un aumento della repressione delle proteste da parte dello Stato.

Lu manifestanti affrontano la polizia durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017).

Quali forze sono disposte ad opporsi a Milei? Quali sono le prospettive della resistenza anti-capitalista?

La principale opposizione politica è rappresentata dal governo uscente e dai suoi elettori; quindi la sfida per le persone anti-capitaliste sarà quella di opporsi al nuovo governo senza reclutare elettori per l’altra fazione dello Stato – e quindi senza alimentare le false speranze della rappresentanza politica democratica o di quelle misure economiche che possano produrre un capitalismo “più umano”. Le modalità di mobilitazione dei diversi settori della società dipenderanno dalle misure concrete attuate dalle organizzazioni che le guideranno – ovvero le persone disoccupate da un lato, i sindacati statali dall’altro, così come le altre parti del settore privato. Il primo ostacolo in questo senso è la divisione e la leadership delle principali organizzazioni di tutti i settori. Possiamo scommettere che vi saranno mobilitazioni massicce contro il risanamento inflazionistico in corso e gli aumenti dei costi dell’energia e delle tariffe dei servizi – “causati” dalla rimozione dei sussidi. La protesta di massa potrebbe essere innescata da diversi fattori: dalle questioni ambientali alla repressione, dall’oppressione di genere al risanamento economico. La questione è quale sarà la prospettiva di queste lotte – se uno scontro sui risanamenti della borghesia, dello Stato e delle sue misure, si ridurrà [o meno] ad un conflitto contro un governo specifico. Abbiamo già avuto esperienza di come i progressisti reindirizzino le lotte. E sappiamo come finisce. L’esempio di Boric in Cile è istruttivo. Questo presidente, che ha riunito tutti i gruppi oppositori alla destra (compresi molti anarchici), sta ora imponendo misure brutali in campo economico, politico e giuridico – aumentando la potenza di fuoco dei carabineros [polizia], reprimendo le lotte studentesche, attaccando le comunità mapuche, approvando il veto alla “Legge sull’Usurpazione”.6 E quando tutto questo accade, c’è un settore del movimento sociale che rimane in silenzio e si rende complice perché “potrebbe andare peggio” e / o “la destra potrebbe governare”. Noi crediamo che non abbia importanza come gli oppressori e gli sfruttatori si definiscano politicamente: ciò che conta è il loro ruolo sociale ricoperto e quello che fanno. Un fascismo che riduce lo Stato sarebbe storicamente una novità; vedremo [che accadrà]. Per il momento Milei non è un fascista: è un liberale e democratico come tutti quelli che governano i Paesi di questo continente. Un regime di eccezione, che chiameremmo fascista, mira a ripristinare l’ordine statale e a reprimere l’emergenza rivoluzionaria; e questo non sembra il caso dell’Argentina.

Lu manifestanti si scontrano con la polizia durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017).

Quali strategie sono possibili in questo contesto? Come possono le persone provenienti da altre parti sostenere le forze di resistenza anti-capitaliste e antiautoritarie nel territorio dominato dallo Stato argentino?

Partendo dalle lotte esistenti e dalle trasformazioni delle dinamiche capitalistiche mondiali degli ultimi decenni, prestiamo attenzione alle loro manifestazioni locali e alle possibilità che esse comportano. In primo luogo il numero delle persone lavoratrici in condizioni di assoluta precarietà e gli alti livelli di disoccupazione e povertà. Questa è evidentemente una grande difficoltà per il capitale; la gestione di [tali problematiche avviene] attraverso le grandi reti di assistenza statale, minando l’autonomia che i movimenti delle persone disoccupate hanno avuto dagli anni ’90 fino all’inizio degli anni 2000.

Tra la parte più impoverita del proletariato c’è la popolazione indigena. Gran parte di questa popolazione vive nelle periferie delle grandi città. Tra la popolazione indigena che continua a vivere fuori dalle città, compresi i Mapuche in Patagonia e nelle province del nord-ovest, sono emerse importanti lotte per il recupero delle terre, la difesa dei loro mezzi di sussistenza e l’opposizione ai progetti capitalistici. Nonostante si tenga conto delle particolarità di queste espressioni di lotta e della diversità culturale della nostra classe, nel momento in cui le colleghiamo e le analizziamo, non perdiamo di vista la contraddizione essenziale dello sfruttamento del lavoro salariato e dell’imposizione della proprietà privata.

Un altro aspetto fondamentale sono le lotte delle donne e delle persone dissidenti, prestando attenzione ai cambiamenti capitalistici della divisione sessuale. Al di là delle politiche incentrate sul riconoscimento dell’identità, sottolineiamo che il capitalismo non è in grado di rispondere a molti dei problemi che si sono manifestati, a partire dalla violenza sessista.

Da un punto di vista riformista non è possibile superare la divisione sessuale – in quanto necessaria per la riproduzione della forza lavoro. Da una prospettiva rivoluzionaria è diventato chiaro che non è possibile abolire le classi sociali senza abolire la divisione di genere. Da alcuni anni stiamo scrivendo una serie di numeri di “Cuadernos de Negación” su questi temi.

Infine, siamo solidali, partecipiamo e osserviamo da vicino le cosiddette lotte ambientali. L’economia argentina è fortemente basata sulla produzione primaria, sia agricola che mineraria. La riproduzione di gran parte della forza lavoro da parte dello Stato dipende, in larga misura, da questo settore. Questo tipo di produzione non può essere delocalizzato quando la popolazione si rifiuta di lavorarci. È quello che è successo con diversi progetti minerari (come nella provincia di Chubut). Ancora oggi c’è una forma di resistenza all’estrazione del litio a Jujuy. Fermare questo tipo di offensiva è un duro colpo per lo sviluppo capitalista in Argentina. Siamo impegnatu a promuovere le profonde implicazioni di queste lotte, opponendoci al capitalismo “verde” o all’ambientalismo cittadinista.

Nella città di Rosario, dove viviamo, negli ultimi anni abbiamo sofferto degli incendi delle zone umide (distanti a pochi chilometri dalla città). Questi roghi sono stati intenzionalmente realizzati per l’agricoltura animale. Verso la fine dell’anno scorso abbiamo pubblicato un libro intitolato “Plomo y humo. El negocio del capital” [Piombo e fumo: Il business del capitale], in cui affrontiamo questo tema e la violenza legata al narcotraffico – cresciuta sistematicamente nell’ultimo decennio. Sebbene ci siano state mobilitazioni massicce contro gli incendi – i quali hanno distrutto le zone umide e causato problemi sanitari -, la questione della violenza legata alla criminalità è stata difficile da affrontare per i movimenti sociali. C’è un’opposizione al pugno di ferro e [alle connivenze tra] polizia e criminalità; ma non ci sono state espressioni di lotta massicce in questo senso. [Al massimo] si richiede “più sicurezza”, anche se ci sono stati alcuni casi specifici.

In sintesi, quindi, ci riferiamo ai diversi piani dell’attuale lotta di classe che vanno oltre la sfera della produzione e mettono in discussione il capitalismo stesso. La possibilità di una rottura rivoluzionaria è latente in queste lotte e offre una strada che possiamo percorrere anche se per il momento la pacificazione democratica è fortemente imposta.

Abbiamo concluso questa intervista il 10 Dicembre 2023, giorno in cui Javier Milei ha assunto la presidenza – e in attesa degli annunciati risanamenti economici di domani.


Thanks to Iene Anarchiche for the translation.

  1. Nel contesto italiano abbiamo avuto due esempi di neofascisti che cercarono di presentarsi come oppositori contro le elitè al potere. Il primo esempio è la Sicilia del 1944-45. Dopo l’operazione Husky e l’epurazione e deportazione di buona parte della dirigenza del Partito Nazionale Fascista, in Sicilia si insediò l’AMGOT, “l’Allied Military Government of Occupied Territory, dipendente dal Quartier Generale alleato del Mediterraneo, di cui era responsabile il generale Alexander che, in qualità di Governatore militare del territorio occupato, emanava i proclami e le ordinanze alla popolazione civile.” Nel Febbraio 1944, con gli accordi presi tra AMGOT e Governo del Regno del Sud, la Sicilia passò sotto la giurisdizione italiana. Dieci mesi dopo, nel Dicembre del 1944, il governo retto da Bonomi richiamò “dieci classi di riservisti per fare la guerra ai tedeschi e al fianco degli alleati”. La rivolta armata del “Non si parte”, scoppiata dopo la repressione sanguinosa avvenuta l’11 Dicembre 1944 a Catania, dilagò in tutta la Sicilia (Dicembre 1944 - Gennaio 1945). I motivi di questa rivolta erano di natura economica (distruzione del settore agro-industriale da parte dei bombardieri anglo-americani durante le fasi guerreggianti del 1940-1943, inflazione galoppante (causata dall’immissione di decine di miliardi di AM-Lire nella sola Sicilia) e il dilagare della cosiddetta “borsa nera”) e sociale (insofferenza contro un governo (prima occupante e poi “nazionale”) che si era dimostrato difensore del capitalismo rurale regionale e repressore contro chi chiedeva pane e casa). I fascisti, in tutto questo, parteciparono ai comizi pro-rivolta e combatterono contro le forze militari regie; ma costoro non ebbero un ruolo decisionale o di organizzazione delle sommosse durante questa rivolta - come ventilato dal Partito Comunista Italiana che definì il “movimento non si parte” rigurgito del fascismo, colluso “con certi gruppi del movimento separatista, sfruttando le tragiche condizioni di esistenza del popolo lavoratore […], vuole impedire la partecipazione alla guerra di liberazione dei siciliani” -, o si opposero a tutta la repressione subita dalla popolazione siciliana tra la fine di questa rivolta (Febbraio 1945) e le operazioni poliziesche-omicide dei governi De Gasperi (1946-1953). Fonte utilizzata**: Giomblanco Francesco, “Alto tradimento. La repressione dei moti del non si parte. Dal carcere al confino di Ustica”, Sicilia Punto L, Ragusa, 2010, 212 p. **Il secondo esempio,invece, avvenne a Reggio Calabria nel 1970-71. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, Reggio Calabria, come città e territorio provinciale annesso, era in forte crisi sociale ed economica. Le cause di questo stato di cose erano da ricercarsi nella parziale ricostruzione post Terremoto del Dicembre 1908, un tessuto industriale inesistente, i voti di scambio e l’utilizzo dei fondi statali per arricchire determinate compagini economiche – legate al partito dominante, ovvero la Democrazia Cristiana. La scintilla della rivolta reggina scoppiò dopo la decisione governativa nazionale di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro. Tutta una serie di partiti politici, con in testa la Democrazia Cristiana dell’allora sindaco reggino Pietro Battaglia e il Movimento Sociale Italiano e la CISNAL di Francesco “Ciccio” Franco, sostennero la rivolta perchè tale decisione nazionale venne vista come “uno scippo politico” ai danni di Reggio Calabria. Se queste furono le intenzioni dei democristiani e dei loro alleati di strada fascisti - a cui si devono aggiungere le presenze di soggetti quali Junio Valerio Borghese, Stefano delle Chiaie e Pino Rauti-, la rivolta reggina fu molto più eterogenea e vasta di come venne descritta dai giornali e / o da queste compagini politiche destroidi: si estese nei paesi vicini a Reggio Calabria (Gioia Tauro, Polistena, Bagnara, Scilla, Condofuri, Africo, Palmi, Siderno, Villa San Giovanni) e vide la partecipazione popolare stanca di uno Stato latitante e di una borghesia in combutta con il partito al potere (Democrazia Cristiana). La repressione avvenuta nel Febbraio del 1971 pose fine alla rivolta. I dirigenti missini di Reggio Calabria, con in testa Francesco Franco e Fortunato Aloi, vennero acclamati come eroi dal loro partito e utilizzarono, come propaganda elettorale, ciò che fecero in quei mesi nella città dello stretto – come dimostrato dalle elezioni nazionali successive per la sesta legislatura (1972-1976), in cui Aloi divenne deputato e Franco senatore. Fonte utilizzata: Itri Maria, “5 anarchici del sud. Una storia degli anni ’70” 

  2. Nella cosiddetta America Latina il termine “dittatura civile-militare” serve per sottolineare le responsabilità violente e repressive dell’esercito e l’accettazione di questo stato di cose da parte del mondo sociale ed economico (specie quello legato all’economia finanziaria). Nel caso argentino segnaliamo, con alcuni stralci, l’articolo “Perchè si dice che la dittatura è civile-militare?” del collettivo argentino “La primera piedra”. Il collettivo argentino spiega che la dittatura civile-militare era tale in quanto si dovevano “eliminare tutte le organizzazioni politiche e distruggere i legami sociali che permettevano di generare una molteplicità di progetti collettivi. La scomparsa dei quadri politici (nell’ordine delle migliaia) era necessaria affinché l’Argentina si adattasse ai cambiamenti dell’accumulazione capitalistica internazionale. La repressione era necessaria per passare dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario. All’interno del settore “civile” vi erano i settori ecclesiastici, imprenditoriali, proprietari di mezzi di comunicazione, politici e funzionari giudiziari che sponsorizzavano, sostenevano ed erano complici e responsabili dello sterminio. All’interno e all’esterno dello Stato, c’erano persone che fomentavano e generavano dei crimini contro l’umanità verso le persone lavoratrici delle fabbriche, studenti, attivistu e un gran numero di persone che si opponevano al terrore di Stato e all’installazione di un’economia nelle mani di pochi. […] Nello stabilimento General Pacheco della Ford fu creato un centro clandestino per tenere in prigionia i lavoratori dello stabilimento. Nello zuccherificio Ledesma di Jujuy, di proprietà di Carlos Blaquier, furono sequestrate 400 persone con il supporto logistico e la complicità degli imprenditori. […] molti settori della Chiesa sono stati complici dei militari: hanno collaborato nel trasmettere [ai militari] le informazioni delle organizzazioni familiari – che si erano appena formate -, [oltre ad] avvallare le torture, il sovraffollamento delle persone detenute-desaparecidxs e lo sterminio. Anche i politici che ricoprivano incarichi di governo, come José Alfredo Martínez de Hoz - che fu ministro dell’Economia ai tempi -, furono parte fondamentale della dittatura. Questi minimi accenni sono solo alcuni esempi del ruolo civile svolto dalla dittatura. Essi furono coinvolti nella pianificazione e nella complicità del genocidio. Oltre a questi, molti uomini d’affari e gruppi economici hanno beneficiato di un modello economico che ha danneggiato, e danneggia tuttora, la grande maggioranza della popolazione. Questi settori hanno dettato le politiche economiche da attuare durante il governo militare e negli anni successivi. I responsabili civili del genocidio sono quelli che ancora oggi (2018, ndt) rimangono nei settori dei poteri costituiti […] Gran parte della società ha accettato l’arrivo della dittatura civile-militare: alcuni settori per ignoranza e altri per totale complicità. […]” 

  3. Per una sintesi, seppur parziale, della situazione argentina di quel periodo storico, rimandiamo al seguente articolo: “L’autogestione come resistenza alla crisi”, Umanità Nova, 10 Maggio 2020. Link 

  4. Nel Dicembre del 2011 il governo Kirchner modificò la legge anti-terrorismo del 2009, scatenando una pioggia di critiche da parte dei movimenti popolari e di lotta. Riportiamo alcuni estratti tradotti del “Coordinadora contra la Represión Policial e Institucional” (CORREPI) del Gennaio 2012 dal titolo “Argentina. Le leggi Antiterroristiche: dalla Dottrina della Sicurezza Nazionale alla “governance democratica con cooperazione””: “[…] La nuova riforma del codice penale, come è successo nel 2003, nel 2005, nel 2007 e nel 2009, è stata proposta e approvata in tempi record in modo da incontrarsi con le linee guida imposte dal Grupo de Acción Financiera Internacional (GAFI), un’agenzia “specializzata”, a livello internazionale, nell’assicurare i suoi piani di dominio. […] Verso i primi di Ottobre (2011, ndt), il GAFI sollecitava nuovamente il governo argentino nel fare progressi sulla promulgazione delle leggi antiterrorismo - come quelle emesse tra il 2003 e il 2009 […]il ministro della giustizia e dei Diritti Umani, Julio Alak, ha convocato una conferenza stampa per annunciare che l’Esecutivo aveva inviato al Congreso un nuovo pacchetto di leggi, adeguando “[…] la legislazione nazionale ai più alti standard internazionali […]” Il giorno dopo la conferenza ministeriale, le principali rappresentazioni aziendali […] hanno applaudito alla misura e assicuravano il loro sostegno al governo […] Il progetto, che raddoppia le pene per qualsiasi reato quando l’intenzione dell’autore è quello di “terrorizzare la popolazione, costringere le autorità pubbliche nazionali ad astenersi dall’intervenire, compiere un atto grazie a governi stranieri o agli agenti di un’organizzazione internazionale”, è già legge ed è stata approvata dalla maggioranza kirchnerista […] Così, basta una definizione più concreta del concetto di“terrorismo” che i giudici e i governatori fedeli a Kirchner saranno ligi al loro dovere. E non abbiamo nulla da temere. […] Ora è “terrorismo internazionale” qualsiasi atto che ha l’intento di “terrorizzare la popolazione”, e niente fa più paura alla borghesia della classe operaia organizzata, unita e stabile. È “terrorista” chi cerca di “costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un atto o a impedirglielo” e chiaramente si applica a qualsiasi movimento che richiederà al governo una misura o un rinnegamento della stessa. […] L’incorporazione sistematica di leggi più repressive dimostra che […] le lotte aumenteranno e [le istituzioni economiche e politiche] vogliono essere pronte a difendere i loro privilegi. Le leggi antiterrorismo […] sono strumenti legali volti a disciplinare i settori e le organizzazioni che combattono il sistema. Lungi dall’essere una novità, sono un aggiornamento dello schema repressivo dello Stato – il quale risponde agli interessi imperialisti degli Stati Uniti e delle loro organizzazioni internazionali. Il loro scopo principale è isolare le lotte, intimidire chi si organizza ed eliminare la resistenza. […]” 

  5. Questo periodo è stato tradotto dalla versione spagnola dell’intervista 

  6. “Ley de Usurpacion”. La legge in questione si prefigge di debellare i reati di occupazione illegale degli immobili (edifici e terreni agricoli soprattutto), stabilendo nuove pene detentive e meccanismi di restituzione più efficienti. Proposta dall’opposizione di destra nella prima metà del 2023 e inizialmente bloccata dal governo cileno (tramite un veto presidenziale) nell’estate di quell’anno, la “Ley de Usurpacion” viene approvata dai due rami del parlamento nel mese di Novembre. “La legge sull’usurpazione della terra promulgata il 24 Novembre 2023,” scrive Héctor Urbina Huircaleo delle Comunità Mapuche raggruppate di Lof Boyeco Lumaco, “è una legge che attenta al diritto alla pace nell’Araucania e non contribuisce a risolvere il conflitto Mapuche. Questa legge incita alla violenza e attenta al diritto della terra, del territorio e delle sue risorse; quindi questa legge sull’usurpazione è contraria alla pace richiesta nella Regione […] Questa legge sull’usurpazione è chiaramente un’altra strategia per continuare con la violenza il negazionismo, proteggendo gli interessi patrimoniali dei veri usurpatori di terre, che sono gli stranieri, i latifondisti e i grandi produttori di legname – i quali continueranno le loro odiosità razziali e la criminalizzazione verso i Mapuche e i loro diritti di popolo. Noi Mapuche non siamo disposti a cedere le nostre terre, né a tacere sulle intimidazioni dell’élite capitalista, che cerca solo di generare conflitti per militarizzare ulteriormente il nostro territorio. […] Questa è la vera minaccia e un attentato alla pace da parte dello Stato cileno e dei partiti Repubblicano, UDI, Rinnovamento Nazionale, Evopoli. Tutti loro promulgano la violenza e criminalizzano la giusta lotta per il diritto alla terra e alla sovranità territoriale. Le comunità proseguiranno nei processi di recupero delle terre, che oggi sono nelle mani dei veri usurpatori di terre. […] Ci rammarichiamo che i parlamentari abbiano adottato tale legge – la quale mira solo a creare e a generare più tensione e controversia in Araucania. Noi Mapuche non siamo disposti a rinunciare ai nostri diritti come popolo, né abbiamo dato mandato a nessuno di decidere per il nostro futuro. […]” (Fonte: “Ley de usurpación de tierra: ley contraria a la paz en la Araucanía”.)